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S'immagini una cittadina delle Marche nell'immediato dopoguerra, Fermo, e s' immagini una locale sezione del Pci, fra manovali e contadini, giocatori di carte, comizianti improvvisati, ritratti di Stalin, di Gramsci e del compagno segretario del Partito, Palmiro Togliatti; si immagini infine, là dentro, un proletario adolescente, bocciato dalla scuola fascista che però si proclama poeta, mezzo bracciante e mezzo muratore, ironico e insolente, una specie di Socrate anarchico, da tutti sfottuto e mal tollerato. "Palmiro" (1986), che torna in libreria dopo decenni di clandestinità, è il romanzo di formazione di uno dei maggiori poeti contemporanei, Luigi Di Ruscio, ed è un libro avvincente, travolgente. Scritto dal basso verso l'alto, guardando alla vita come sopravvivenza, il romanzo ha il ritmo tragicomico di un'epopea picaresca dove il protagonista ne viene combinando di tutti i colori ma rivolge di continuo a se stesso le domande più essenziali: ce la farò a sfangarla e a trovare un lavoro? chi sarà la mia donna? e la rivoluzione, quando scoppia la rivoluzione? Scritto con la felicità inventiva e la cadenza orale che peraltro è tipica della poesia di Di Ruscio, "Palmiro" ha già avuto lettori d'eccezione come Italo Calvino che ne parla in una lettera come di un fratello del Bardamu di Louis-Ferdinand Céline o del "Buon soldato Sc'vèik" di Hasek. Il piccolo eroe, infatti, gira a vuoto, continua a non avere né un lavoro né una donna e di rivoluzione neanche se ne parla. Postfazione di Antonio Porta.