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Conterranei e quasi coetanei, il filosofo Søren Kierkegaard e il favolista Hans Christian Andersen si scambiarono poche parole e pochi complimenti. Tuttavia, quasi in competizione con Andersen, che stava diventando, non solo in Danimarca, sempre più famoso e riconosciuto come insuperabile autore di favole, Kierkegaard meditava segretamente una propria maniera di scrivere favole: storie severe, dure, inesorabili, indagatrici del profondo e capaci di sfiorare ogni volta la tragica poeticità della vita. Ne tratteggia il paradossale programma in un passo dei suoi Diari: «Andersen può raccontare la fiaba delle scarpette della felicità, ma io sono in grado di raccontare la fiaba della scarpa che stringe, che fa male». "L'avventura del giglio selvatico" è una di queste fiabe straordinarie e spietate, che non fa sconti, da contrapporre alla svenevolezza dei brutti anatroccoli e delle sirenette. Kierkegaard poteva infatti concludere: «Andersen non ha idea di cosa sia una fiaba, ha un buon cuore e basta, ma cosa c'entra questo con la poesia?».