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Pubblicato nel 1841, «Sul concetto di ironia» è il frutto mirabile di un accoppiamento tra entusiasmo e ironia: entusiastica la dedizione giovanile con cui l'autore si vota alla filosofia, ironico il distacco esasperante che pone tra la materia e sé, e tra sé e il lettore. Da un lato la nobile aspirazione dell'uomo all'infinito, dall'altro l'inevitabilità della sua sconfitta. Le due figure che dominano l'opera sono Socrate e Cristo: il primo raffigura la finitezza, la pura domanda, l'umana ricerca della verità; il secondo è l'unica autentica risposta alla domanda socratica, l'unica esperienza singolare in cui l'eterno si è incarnato nella storia. Da qui Kierkegaard ricava quella che sarà la sua via per fuggire l'angoscia, per trasformare un problema in una soluzione: mutare il passato in futuro, morire nel peccato per rinascere nella redenzione.