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Quello tra Giuseppe Ungaretti e la poesia di William Blake è stato un incontro di rilevanza storica, una fedeltà di lunga durata: «sette lustri», dichiara il poeta-traduttore nel suo "discorsetto" introduttivo. Un incontro tra figure d'epoche lontane, in cui, secondo modalità espressive (ma non solo) inevitabilmente molto diverse, è stata dominante quella tensione interna capace di spingersi verticalmente dagli enigmi del silenzio alla libertà della parola. Una parola sempre alla ricerca del senso originario di una autentica innocenza espressiva. Ungaretti esplora con passione la realtà visionaria della poesia di Blake, ne è fortemente attratto, che rappresenti la Tigre o il suo apparente opposto, l'Agnello, realizzando quadri poetici capaci di una bellezza trasognata o di accensioni vorticose o di canti profetici, in un insieme al tempo stesso tanto delicato quanto feroce. Il suo intervento non è stato però solo quello del traduttore, ma quello del poeta che ricrea il testo classico di partenza, lo assorbe interamente nel proprio speciale sistema di valori di scrittura e ne offre infine una versione che diviene un fondamentale capitolo della sua stessa opera. Un capitolo, oltre tutto, destinato ad appassionare - per l'estro inventivo e la forza comunicativa che lo caratterizza - ben oltre i tempi della sua creazione e ripresa novecentesca. In quanto, come Ungaretti stesso ci avverte, «la poesia è però poesia solo se uno udendola, da essa subito si senta colpito dentro, senza immaginare ancora di potersela spiegare, o non ancora indotto a doversi confessare di non potere mai essere in grado di valutarne le manifestazioni, miracoli». E tutto questo indubbiamente continua ad avvenire per noi, nella irripetibile avventura poetica e nei fantastici simboli suggestivi di queste Visioni.