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"La letteratura è salute", scriveva in uno dei suoi ultimi saggi Gilles Deleuze, affrettandosi a correggere il carattere paradossale che una simile affermazione avrebbe potuto contenere: è vero che molti fra i massimi scrittori del Novecento, se li analizziamo attraverso la loro biografia, ci possono apparire come degli ammalati o dei nevrotici, ma è anche vero che "non si scrive con le proprie nevrosi", e che tutta la loro opera sembra trascinarli semmai in un senso esattamente opposto. "Lo scrittore in quanto tale non è malato, ma piuttosto medico, medico di se stesso e del mondo. Il mondo è l'insieme dei sintomi di una malattia che coincide con l'uomo. La letteratura appare allora come un'impresa di salute", serve a prefigurare, ad anticipare una salute diversa. I saggi riuniti nel volume, quelli sabiani, ma non solo, ruotano intorno a questo concetto: "il Canzoniere non è" scriveva Saba in una celebre lettera del 1952 ad Antonello Trombadori "un'opera di salute, né poteva esserlo, dato che sono stato sempre, più o meno, contraddittorio ed ammalato. Fu appena un'opera di aspirazione alla salute. È altra cosa". Questa aspirazione segreta, questa "altra cosa", è la misura che si è cercato di applicare alle letture di Saba e Svevo, di Jahier e Calvino che vi si sono raccolte: notando come essa appaia incongrua per una letteratura, come quella italiana, che a una salute come questa, tanto compromessa con la malattia, raramente ha voluto prestare ascolto.